Tito Flavio Domiziano (Titus Flavius Domitianus; Roma, 24 ottobre 51 – Roma, 18 settembre 96) è stato imperatore dal 14 settembre 81 alla sua morte, con il nome di Cesare Domiziano Augusto Germanico (Imperator Caesar Domitianus Augustus Germanicus), ultimo della dinastia flavia.
Dopo la morte dell'Imperatore Tito, che non aveva avuto figli, gli successe il fratello Domiziano, proclamato imperatore dai pretoriani.
Domiziano aveva il carattere militaresco del padre Vespasiano,costrinse il senato a nominarlo censore perpetuo, in modo da poter eliminare tutti i senatori, che non gli fossero completamente fedeli; dette sviluppo a una rigida burocrazia, sostituendo spesso impiegati dipendenti direttamente da lui ai magistrati nominati dal senato. Domiziano per primo pretese l'appellativo di signore, e giunse a farsi chiamare anche dio. Perseguitò i filosofi stoici, i quali guidavano l'opposizione delle classi colte e aristocratiche contro l'assolutismo imperiale; restaurò i tradizionali culti romani, vietando i culti orientali e perseguitando gli ebrei ed i cristiani.
Importanti imprese militari furono condotte sotto il regno di Domiziano, specialmente sul Danubio e in Britannia. Fu organizzato un poderoso sistema difensivo fra il Reno e il Danubio, il famoso e solidissimo limes. In Britannia fu inviato il generale Agricola, che riportò brillanti vittorie, sottomettendo tutto il territorio dell'odierna Inghilterra.
Ma contro la tirannia di Domiziano e contro le gravose imposte da lui ordinate si ordirono congiure. L'imperatore divenne sospettoso, ricorse agli arresti e alle condanne, accrescendo l'odio. Alla fine, nel 96 d.Cr., cadde vittima di una congiura.
La caccia di Domiziano
«T’abbia in grazia Minerva, o Imperatore:
la caccia come va?» Goccia il sudore
pe ‘l divin fronte: Con l’estivo ardore
le mosche ricominciano abondare.
Calvo, le gambe povere, ed acceso
in volto, il divo imperatore, inteso
a la caccia, piú mosche a l’ago ha preso,
e pago esclama: Questo, è un bel cacciare!
Scocca, stiletto, e infilza quel moscone:
È un discepol di Paride istrïone;
questo che ronza è Acilio Glabrïone.
e quello è Orfito; vieta lor l’andare.
O perché vai tant’alto, Cerïale,
bel moscone proconsole? Lo strale
mio va piú ratto che non le tue ale,
e ti coglie nel ventre consolare.
Pe ‘l natal celebrato il divo Ottone,
o Coccejan, devoto calabrone,
questa freccia or ti manda in su ‘l groppone:
Meglio era il funeral tuo celebrare.
Tu, Sallustio Lucullo, hai già messo ale
se piú de le tue lance or questo vale
mio stil, giudica tu, savio animale,
che il nome su le lance ami fermare.
O mosche nere, che svolate in festa,
questo sole divin, che mi molesta,
ebre di luce, vi farà la testa
su ‘l mio marmo fengite esercitare.
Dice, e su i lunghi labbri un tristo riso
si torce in una smorfia. «Io sono avviso
che per un ch’io mi sia, molti avrò ucciso,
pria ch’abbia effetto il vostro congiurare»,
E ne l’occhio di bue, freddo e severo,
vaga torvo fra tanto un gran pensiero:
Ne lo stile infilzar tutto l’impero,
il moscon matto, che un’aquila pare.
O calvo imperator Domizïano,
nepote vostro, anch’io, se ben lontano,
infilzo ne l’aguzzo stil, che ho in mano,
ogni insetto che vienmi a molestare.
Ma ne l’accidia, nel tedio mortale
di far bene, e financo di far male,
la mia vita io vorrei, mosca senz’ale,
anche lei, ne lo stil freddo infilzare.
Luigi Pirandello